5 Album iconici che compiono vent’anni nel 2004

Abbiamo da poco celebrato alcuni degli album più belli che con il nuovo anno raggiungono il mezzo…

Abbiamo da poco celebrato alcuni degli album più belli che con il nuovo anno raggiungono il mezzo secolo d’età (se volete riascoltare la puntata, la trovate qui), ma ci sono traguardi “anagrafici” in grado di colpirci ancora di più: se cinquant’anni fa la grande maggior parte di noi non era nemmeno nata, accorciando un poco l’arco temporale e fermandoci a due decadi fa la faccenda cambia.
Vent’anni fa, nel 2004 (!), i bistrattati eppur inossidabili millennial non solo erano già nati, ma erano già ragazzi o giovani adulti: magari hanno ascoltato i pezzi di cui parleremo col lettore CD portatile o con i primi lettori mp3 e, altrettanto probabilmente, avranno un piccolo sussulto nel leggere che queste canzoni stanno per compiere vent’anni, ma ci sembra corretto onorare alcuni degli album più rilevanti usciti in quei lontani mesi. 

Nel 2004 a dominare la scena musicale internazionale erano gli artisti pop, R&B e hip-hop, prevalentemente negli Stati Uniti: Eminem, Pharrell (anche con i suoi  “N.E.R.D.”), Usher e Destiny’s Child riempivano le classifiche e influenzavano mode e stili in tutto il mondo.
Al tempo stesso, si è trattato di un anno che ha fatto da spartiacque e ha preparato il terreno per un altro tipo di scena: è stato proprio nel quarto anno del nuovo millennio, infatti, che il rock, da tempo a secco dopo i fasti degli anni ’90, ha ritrovato linfa vitale e ha nuovamente recuperato il centro della scena con decisione. 
Siamo negli album definiti dalla cosiddetta cultura “indie sleaze“, una sorta di movimento fashion che riporta in auge gli stili degli anni ’60 e ’70 con un tocco apparentemente più dismesso, ma attentamente curato: il trucco sbavato, le maglie forate e i capelli spettinati sono l’espressione estetica di un fermento culturale che coinvolge anche la scena musicale e che riapre la porta alle chitarre. Come tutte le fasi di cambiamento, anche questa è stata prolifica e sono stati tanti i gruppi rock che nel 2004 ci hanno regalato lavori iconici, per un motivo o per l’altro: abbiamo deciso di ricordare 5 album particolarmente significativi, soffermandoci sul motivo della loro importanza e sui pezzi migliori della tracklist che – spoiler – spesso non coincidono con i singoli e le hit.

Buona lettura e buon ascolto! 

Credit: Roger Kisby/Getty Images

Green Day – American Idiot
L’album più popolare della band di Berkeley (fresca fresca del nuovo album “Saviors“), nonché quello ritenuto da molti giovanissimi come il loro primo successo (sigh): “American Idiot” è indubbiamente un disco epocale. Lo è nel vero senso della parola, visto che parte dagli avvenimenti della sua epoca – in primis, l’11 settembre e la presidenza di Bush – per raccontare la storia di un antieroe nell’America di inizio millennio. Ma lo è anche per quello che ha significato, ossia l’assoluto picco creativo dei Green Day, che tornano alla ribalta dopo l’insuccesso di “Warning” con un’incredibile dose di rabbia e un concept album perfetto, negli anni in cui nessuno sapesse cosa fosse.
Il disco esplode di hit, dalla title track, a “Holiday” e “Boulevard Of Broken Dreams“, fino al super classicone “Wake Me Up When September Ends“, ma è impossibile, anche a distanza di vent’anni, non rimanere incantati da “Jesus Of Suburbia“: 9 minuti di opera teatrale rock, che mescola tutti gli ingredienti migliori dei Green Day in un flusso di coscienza avviluppante, che parte con un esplosivo “I’m the son of rage and love” e si chiude con un saluto tagliente, “I don’t feel any shame, I won’t apologize, when there ain’t nowhere you can go, running away from pain when you’ve been victimized, tales from another broken home“.

The Killers – Hot Fuss
Sotto pressione dopo l’uscita di “Is This It” degli Strokes (2001), che ha inevitabilmente alzato il livello del genere, i Killers hanno ri-lavorato più volte a questo album, arrivando a una versione finale molto diversa da quella con cui erano entrati in studio. Il risultato è un disco composto da 11 “indie anthems”, una tracklist incredibile che include, per esempio, “Mr. Brightside“, “Somebody Told Me“, “Jenny Was A Friend Of Mine“, “Smile Like You Mean it“: la nostra prediletta è “All These Things That I’ve Done“, inno al dilemma etico di un soldato che, purtroppo, non smette mai di essere attuale. Fun fact: la canzone è parte della colonna sonora del film “Southland Tales” (2006), in cui viene eseguita con un truce lip sync da Justin Timberlake.
Insomma, il 2004 ci ha regalato il debutto di una delle band più longeve e costanti (oltre che sottovalutate) della nostra generazione, che proprio di recente ha festeggiato l’anniversario con una raccolta dei migliori successi e che ora si prepara ad alcuni speciali concerti celebrativi a Las Vegas.

Arcade Fire – Funeral
E’ proprio nel corso del 2004 che fa il suo debutto una delle band più creative e innovative della nostra epoca, i canadesi Arcade Fire, guidati dalla coppia Win Butler e Régine Chassagne. Il triste titolo dell’album, “Funeral“, è dovuto alle vicende personali di buona parte della band, che, però, ha saputo usare il dolore per produrre canzoni teatrali e paradossalmente pompose rispetto al mood dei testi: è solo l’inizio di una carriera che li ha resi un punto di riferimento per l’intera scena rock internazionale e li ha portati a duettare con David Bowie nel 2013. Lo stile epico del gruppo emerge prepotentemente proprio dal loro primo lavoro, a partire dal sovraffollamento degli strumenti: fisarmoniche, piani, violini, organi, xilofoni, chitarre di ogni tipo riempiono gli spazi desolati della malinconia dei testi, costruendo quel contrasto artistico che contraddistingue lo stile della band.
Il nostro pezzo preferito? “Neighborhood #1 (Tunnels)“: il gelo dell’inverno che stride con la potenza dei sentimenti, belli e brutti, pronti a spazzare via anche la neve più ingombrante.

credits: Wendy Redfern / Redferns

The Libertines – The Libertines
Attraversando l’oceano Atlantico e approdando nel Regno Unito, il 2004 è stato l’anno che ha ridato slancio a una scena stanca e mai completamente riemersa dalla fine del Brit Pop. Nella terra d’Albione, complice il successo degli Strokes, sono nate tante band che hanno creato alcuni degli album più iconici di un genere che, qualche anno dopo, avrebbe visto il dominio dei (primi tre album dei) Coldplay e degli Arctic Monkeys. E’ in questo contesto che esplodono The Libertines, trainati dal rapporto di amore e odio dei due frontmen, Peter Doherty e Carl Barat che, troppo spesso, ha offuscato il valore autoriale della band. Con la nostalgia dei testi ispirati alla letteratura inglese e la veemenza di chi ha voglia di spaccare tutto, i Libertines vent’anni orsono pubblicano l’omonimo album che segna anche la loro momentanea fine: i messaggi di canzoni come “Can’t Stand Me Now“, “What Became Of The Likely Lads” o “Music When The Lights Go Out” non lasciano spazio a grandi interpretazioni e contengono tutta la frustrazione per un’amicizia fraterna andata in frantumi. Noi, però, ci sentiamo di consigliarvi “The Man Who Would Be King” – una ballata rock di clashiana memoria, complice la produzione di Mick Jones – che guarda con disincanto alle regole spietate della music industry.
Ma mai dire mai, perché i Libertines sono tornati (nel 2015) e ora hanno un nuovo album in arrivo, “All Quiet On The Eastern Esplanade“.

Kasabian – Kasabian
Il 2004 ha visto il debutto di un’altra band imprescindibile per la scena rock inglese degli ultimi due decenni, i Kasabian. Con un disco omonimo che è un mix pazzesco di melodie orecchiabili, suoni psichedelici, chitarre potentissime e un’attitudine sfrontata, si sono presi immediatamente la scena, diventando, in particolar modo, imbattibili nella dimensione live. Dopo essersi divorati i palchi dei più grandi festival internazionali e creato quattro album assolutamente notevoli, la parabola è cominciata a scendere nel 2014, col poco convincente “48:13“, per poi crollare negli anni seguenti: anche qui abbiamo un rapporto di amicizia fraterna distrutto, alcol e droghe che complicano tutto e, infine, l’uscita di scena di Tom Meighan, che segna la fine definitiva della band. Definitiva, sì, perché anche se i Kasabian sono formalmente ancora in attività (saranno in Italia la prossima estate), i fasti di energia e vigore che li hanno resi unici nel loro genere sono solo un bel ricordo.
Torniamo ai tempi d’oro, però: al di là delle hit “Club Foot“, “L.S.F.“, e “Cutt Off“, la nostra scelta va su “Running Battle“, un pezzo che unisce melodia, suoni d’impatto e quel tocco malinconico che rende tutto più magico. 

Sara Bernasconi

Similar Posts

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *