green day: i 25 anni di “nimrod”

Proprio in questi giorni si festeggiano i 25 anni di Nimrod, l’album dei Green Day che fu…

Proprio in questi giorni si festeggiano i 25 anni di Nimrod, l’album dei Green Day che fu importantissimo per rilanciare la carriera della band, rappresentando una piccola svolta stilistica e dando nuova linfa a Billie Joe e soci.
Il gruppo ha appena annunciato “Nimrod XXV“, una riedizione in uscita a gennaio, che festeggerà il primo quarto di secolo dell’album, con l’aggiunta di quattordici demo e un album dal vivo, registrato alla Electric Factory di Philadelfia nel ’97. A completare il tutto, due inediti, “Tre Polka‘ e ‘You Irritate Me‘, traccia demo anticipata la scorsa settimana in occasione dell’annuncio.
Indubbiamente una celebrazione di tutto rispetto per un album purtroppo ancora poco riconosciuto e fagocitato dalla fama di “Dookie“, prima, e “American Idiot“, dopo: sembra quasi che anche gli stessi Green Day vogliano rendere il giusto omaggio a quella che è stata una tappa fondamentale per la loro carriera.

Per capire l’importanza di Nimrod, infatti, bisogna fare un passo indietro.

Siamo nel 1997, a tre anni dal successo planetario di “Dookie”, l’album perfetto, rivelatorio, esplosivo che ha reso i Green Day noti in tutto il mondo. Ma il successivo “Insomniac” (1995) non è riuscito a tenere il passo del precedessore, e i Green Day si trovano in un momento decisivo, in cui capire che strada prendere.
Un momento, per la verità, del tutto naturale anche per la loro età anagrafica: nel 1997, con 3 album all’attivo, di cui uno di fama planetaria, Billie Joe Armstrong, Tré Cool e Mike Dirnt hanno 25 anni. È il coming of age per eccellenza, quella sorta di bivio che ti porta ad abbandonare definitivamente la post-adolescenza e il turbinio dei vent’anni e che, nella maggior parte dei casi, coincide con l’ingresso nel mondo del lavoro o magari (in quegli anni, almeno) col metter su famiglia. E, a proposito di lavoro, Billie Joe e soci, in circa cinque anni, erano passati dai live nei club piccoli e sporchi ai palazzetti, agli studi di MTV e agli shooting fotografici su Rolling Stone. Non a caso, ovviamente: i Green Day hanno di fatto riportato il punk-rock alla ribalta mondiale negli anni ’90, dando un’ulteriore voce – insieme al grunge – alla rabbia di migliaia di ragazzi e raccontando un’altra fortissima storia di “underdog” che riescono a far sentire la propria voce. Indubbiamente una bella responsabilità: e i Green Day, con Nimrod, hanno capito che il miglior modo per gestirla era quella di essere onesti.

Lungo (18 pezzi, originariamente addirittura 30), molto meno uniforme di Dookie o Insomniac, ancora lontanissimo dallo stile di concept album poi perfettamente espresso da American Idiot (2004): Nimrod è variegato e frammentario.
Accanto a pezzi orecchiabili e subito riconoscibili, come “Nice Guys Finish Last”, “Hitchin’ a Ride” o “King for a Day”, infila pezzi cinici come “The Grouch”, malinconici come “Redundant” e “Scattered”, o assolutamente non radiofonici come “Platypus (I hate you)” e “Take Back”. Si viaggia per generi diversi, sfiorando l’hardcore, lo ska e persino il surf rock, per poi approdare alla celeberrima ballata di “Good Riddance”: bellissima, intensa, malinconica, dolce. Tutto quello che una ballata deve essere, insomma, con l’aggiunta di un magico tocco punk nell’intro incespicata, ben raccontata nel nostro pezzo sulle migliori intro anni ’90.
Insieme ai generi, anche i temi cambiano: c’è la dipendenza dall’alcool (per cui Billie Joe pagherà pegno col breakdown del 2012), ci sono la preoccupazione per il futuro, la frustrazione amorosa e la malinconia per gli amici di un tempo: si passa dal puro disagio punk di noia e fastidio, alla crisi di identità che tutti noi viviamo avvicinandoci ai trenta, per i Green Day acuita dal fatto di essere improvvisamente diventati dei giovani famosi, ricchi e privilegiati.

Photo Credits: Snorri Brothers

Nimrod è un album ampliamente sottovalutato, esattamente come il successivo “Warning” (2000): è un disco intenso, vario e onesto, che non è stato compreso e recepito come avrebbe dovuto.
Ma, per fortuna, le canzoni hanno un grande potere: restano, sono sempre lì, e possono essere riascoltate anche dopo anni. E questo è il mio spassionato consiglio: riascoltatevi Nimrod, oggi.
Se, nell’era delle playlist, vi spaventano i diciotto brani, concedetevi almeno una degustazione, fuori dai singoli e alla scoperta del meglio che questo disco ha da offrire, con questa sequenza rinvigorente: carica iniziale con “All the time” e “Uptight”, sospironi con “Redundant” e “Walking Alone” (che anticipa chiaramente le atmosfere di Warning) e chiusura con la fantastica “The Grouch”.
Questo, infatti, è uno dei pezzi meno conosciuti eppure a mio parere più belli della band: un concentrato di rabbia e frustrazione, con un testo amaro che comincia con quel “I was a young boy that had big plans” e arriva al definitivo abbandono di ogni idealizzazione, al primo confronto con la vita reale e la prospettiva di fallire. Il tutto con una melodia che entra subito in testa e chitarre che fanno venire voglia di pogare in mezzo alla strada, che, se ci pensate, è l’essenza esatta dei Green Day.

Wasted youth, and a fistful of ideals
I had a young and optimistic point of view” 
[The Grouch]

Un quarto di secolo dopo, Nimrod rimane l’album più sincero e completo del gruppo: più maturo di Dookie, più grezzo di American Idiot. Parte con le hit orecchiabili, poi rallenta con le ballate, poi risale con una rabbia quasi harcore, passa per qualche contaminazione di genere e infine ritorna dove è partito. Un album che lascia traspirare la vera essenza dei tre di Barkley: chitarre chiassose, melodie immediate, testi semplici che sanno andare dritti al punto.

A chi nel 1997 era un adolescente o un giovane adulto, consiglio di ascoltare Nimrod per riguardare indietro e dare una pacca sulle spalle al sé stesso che in quegli anni soffriva e sperava con le cuffie del walkman in testa.
A chi, invece, è più giovane, consiglio di ascoltarlo per capire che i Green Day non sono solo quelli di American Idiot – sicuramente il loro lavoro più riuscito, ma non il più autentico – e che Nimrod è il disco a cui assomigliano di più, anche 25 anni dopo.
Dentro ci sono tre ragazzi alla ricerca del loro posto nel mondo (musicale e non), alle prese con dolore, amore, rabbia, sarcasmo, domande esistenziali: ci sono risposte o soluzioni facili? Assolutamente no, ma il senso di smarrimento viene stemperato dalle chitarre e dalla voglia di provarci comunque, all’insegna di quel concetto di “Rage and love“, che Billie Joe avrebbe reso il motto stesso del gruppo qualche anno dopo. 


Sara Bernasconi

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