I VIDEO MUSICALI DI MOBY

Alcuni dei video leggendari di Moby che hanno contribuito a costruire la cultura pop degli anni 90.

A circa un mese di distanza dalla notizia che per il 14 giugno è attesa l’uscita del suo ultimo album, abbiamo deciso di riscoprire insieme una parte dell’opera artistica di Richard Melville Hall, per gli amici Moby. Dal momento che Moby può piacere oppure no come essere umano (ricordiamo lo storico dissing Eminem vs Moby dei primi anni del 2000 – Without Me, min. 3:06, oppure Moby Gets Honest About His Beef with Eminem) – ma di fatto oggi è considerato una delle figure più importanti al mondo per la musica dance degli anni 90, parleremo di una parte molto precisa e caratterizzata del suo lavoro, che ha fatto il giro del mondo in diverse forme: i video musicali. 

Il disco simbolo e i suoi video indimenticabili: Play (1999)

Partiamo da qualche riga di contesto. Anche se oggi è un artista di fama mondiale, la vita e la carriera di Moby non sono state sempre lineari, principalmente a causa delle difficoltà personali. A due anni, infatti, rimane orfano di un padre che muore ubriaco in un incidente stradale e viene cresciuto solo dalla madre, che, con uno stipendio da segretaria e mille difficoltà lo cresce tra San Francisco, il Connecticut e infine a New York, passando per scuole materne di pessimo livello e squat house popolate di tossici.

A New York trova il proprio habitat, cimentandosi per 10 anni in una varietà di generi, stili e strumenti. I primi anni sono influenzati dal punk e dal post-punk, ma Richard si sente presto limitato e sperimenta di gusto con l’elettronica, alla maniera di tutti i più grandi artisti di dance, elettro e techno suoi coetanei: campionando, remixando, mettendo a loop. Diventa un riferimento per il clubbing newyorkese.

Il quinto album in studio, Play, è il suo simbolo e con esso Moby va incontro a un successo planetario. A parte essere oggettivamente un bell’album, il botto vero lo fa grazie a due colpi di genio, sulla cui etica è stato discusso parecchio. Uno in particolare va ricordato, ovvero il riutilizzo – sebbene dichiarato – dei campionamenti di folk e black music spontanea proveniente dal sud degli Stati Uniti. Il dj newyorkese entra in contatto con alcuni pezzi molto interessanti della “musica delle origini” (come la chiamava il già citato Robert Crumb) grazie ad alcuni CD di Alan Lomax, etnomusicologo e antropologo americano che tra gli anni 50 e 80 usava girare da quelle parti di America con un mini registratore pronto a captare le migliori esibizioni del “Sound of the South”. I CD gli erano stati prestati da un amico durante una cena casalinga. Quell’amico, quei CD non li vedrà mai più tornare indietro, ma la fama mondiale del vecchio ospite dj gli tornerà addosso in ogni forma.

Il secondo colpo di genio di Moby con Play, infatti, consiste nel fornire tutti i 18 pezzi di Play delle licenze necessarie per essere utilizzati in pubblicità, film, programmi tv…praticamente ovunque (per esempio nello spot di Dior del 2020).
Moby, insomma, è uno sperimentatore e anche un “traffichino”. Il suo è uno di quei casi in cui l’industria musicale si fa industria dell’intrattenimento, abbracciando in maniera tentacolare la moda, il cinema, il gossip, la TV. E almeno 4 brani di Play escono accompagnati da video musicali rimasti nella storia anche per questo motivo.

Prendiamo ad esempio Natural Blues. Nel testo, originariamente cantato da Vera Hall dall’Alabama, ci si rivolge continuamente a Dio perché l’animo è così pieno di problemi (Troubles so hard) che anche quando si riesce a provare un barlume di spensieratezza, basta abbassare gli occhi e ritrovare la morte nella realtà. E allora l’artista di epoca post moderna interpreta questo pessimismo cosmico, che fa parte della natura umana, e si affida al celebre fotografo e regista David LaChapelle, allievo di Andy Warhol, noto per le sue rielaborazioni delle scene bibliche in chiave moderna e caricaturale. Il risultato è grottesco ed estremamente simbolico; ci dice, sotto una luce giallo-grigia che rende tutto deprimente: invecchierai male in mezzo a centinaia di altri esseri umani messi anche peggio di te, e mentre morirai nel ricordo privato delle gioie vissute, sopra di tutto trionferà l’infinita ripetizione di destini sempre uguali.

Simbolismo è anche la portata principale nel menù visivo di Porcelain, pezzo immediatamente successivo nell’album a Natural Blues, che in Europa è stato promosso da una prima versione del video, totalmente cambiata per il pubblico americano. Il primo girato consiste in un close-up fisso di un occhio umano, su cui si riflettono diverse scene a momenti alterni.
Mettendo insieme testo e video, si intuisce forse il motivo per cui in Europa sia circolata solo questa versione. L’immaginario cinematografico europeo infatti, nasce con il simbolismo e con il cinema francese. E il film simbolo del cinema surrealista è Un chien andalu, cortometraggio di Luis Buñuel, che guarda caso si apre proprio con un occhio sbarrato (che fa una brutta fine).
E ancora, i due prodotti visivi, così distanti nello spazio e nel tempo, hanno un altro punto in comune: la dimensione onirica. Il cantato di Porcelain è infatti tutto basato sul sogno e sulla gelosia (In my dreams, I’m dying all the time / In my dreams, I’m jealous all the time); Un chien andalu è il susseguirsi di scene senza connessione né senso compiuto, seguendo esattamente la grammatica di un delirio onirico.

I video in animazione

Altro fil rouge riconoscibile nella produzione video di Moby è l’utilizzo dell’animazione. Si tratta di un fenomeno che negli anni 90 esplode e viene riprodotto su miliardi di televisioni piazzate davanti a bambini, ragazzini, adolescenti, giovani grazie a MTV. È, in poche parole, pura cultura pop.
Moby non si fa sfuggire il trend e una particolare affezione per il genere animato è evidente in almeno 3 dei suoi brani più famosi: Why does my heart feel so bad (in Play, 1999), In this world (in 18, 2002) e Are you lost in the world like me (in These systems are falling, 2016).

Nel primo brano vediamo mister Little Idiot e il suo cane partire da un pianeta che somiglia molto a quello de Il Piccolo Principe (altro cult della cultura pop) e atterrare sulla Terra, per imbarcarsi in un viaggio senza speranza nell’incomunicabilità tra esseri umani. Little Idiot è una caricatura dell’artista stesso, ideata da lui in un decennio sfortunato in cui vendeva dischi nel Connecticut.
Ne In this world tornano gli stessi temi: gli alieni, il fido cane, il sentirsi piccoli e impotenti nel mondo. La tecnica è animazione su girato, ma il vero apice di animazione e di narrazione visiva si raggiunge grazie alla collaborazione con il grande illustratore britannico Steve Cutts in Are you lost in the world like me, pezzo di Moby e The Void Pacific Choir.
Con l’inglese Moby condivide le stesse preoccupazioni nei confronti dell’ambiente i due si trovano d’accordo sul legame intrinseco tra questo tema e quello dell’alienazione personale degli esseri umani. Le tematiche degli altri due video si ripetono, ma siamo negli anni 10 nel terzo millennio e il disagio sociale ha un nuovo alleato: la tecnologia degli smartphone. Con essa si sono rese ancora più palesi e polarizzate le molte forme di violenza e di menzogna che sono alla base della nostra alienazione e che siamo stati abituati a ignorare. 

Che lo apprezziamo oppure no, insomma, a conti fatti il gracile Richard ha contribuito non poco alla costruzione della cultura pop a cavallo di due millenni che fa parte di ognuno di noi. E siamo sicuri che ne gode.

Valeria Iubatti

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