King Crimson, perchè ci è difficile capirli e perchè vale comunque la pena provarci.

Questo mio ultimo articolo avrà un taglio un po’diverso dal solito.  Nei giorni scorsi mi sono trovata…

Questo mio ultimo articolo avrà un taglio un po’diverso dal solito. 

Nei giorni scorsi mi sono trovata a discutere sulla possibilità o meno di apprezzare l’arte, in questo caso la musica, senza averne studiato il linguaggio, senza, quindi, averne gli strumenti.

Qualcuno direbbe che per usufruire dell’arte e goderne davvero sia necessario studiare, studiare a lungo, e studiare di più. Personalmente penso che lo studio sia utile alla comprensione e quindi al fine di trarre dall’arte, e di nuovo dalla musica nella fattispecie, un piacere maggiore. Credo però anche che la musica, e l’arte in generale, siano fatte per il mondo, e messe in circolazione per arrivare a quante più persone possibili, siano esse dotate o meno degli strumenti. Credo che chiunque possa ritrovare emozioni nei cassetti del proprio cervello che vengano stimolate da un accordo o da un ritmo o da una frase di una qualsiasi canzone. Ognuno di noi gode delle stesse cose per motivi diversi eppure, allo stesso modo. Eppure ci sono artisti che fanno arte per pochi. Intenzionalmente o meno, succede, che certe opere siano comprese e apprezzate da pochi, e forse il problema è allora proprio la mancanza di strumenti atti alla comprensione reale del linguaggio utilizzato nella trasmissione del messaggio.

In un mondo in cui la cultura viene ridotta nel migliore dei casi ad un trafiletto di facile lettura e rapido consumo sotto ad una foto sui social di cui tutti possono disporre a proprio piacere, ci ritroviamo spettatori inconsapevoli di questa neanche troppo lenta demolizione. E di demolizione non parliamo noi e non parlo io ma lo fa, senza troppi mezzi termini, il colosso della Silicon Valley la cui mela addentata tutti sfoggiamo fieri sui nostri apparecchi. Lo fa Apple con il suo ultimo spot in cui ci mostra quanto sottile e agilmente portatile sia il nuovo ipad, così fine e leggero da contenere senza problemi tutta la cultura del mondo, quella che vediamo all’inizio del video lentamente demolita da una pressa come quelle per autorimesse. 

E nel guardare quello spot che i più troveranno geniale – sicuramente l’hanno trovato geniale quelli che l’hanno pensato e poi quelli che l’hanno approvato – nel guardare quello spot ci si rompe qualcosa dentro quando vediamo quella tromba piegarsi su se stessa e accartocciarsi mentre barattoli di vernice esplodono sul pianoforte, che, inevitabilmente, come del resto i giochi, i libri, la macchina fotografica, i dischi e il mondo tutto subiranno la stessa sorte.

In questo mondo che demolisce la cultura e che ci rende presuntuosi quello che ci rimane sono alcuni ascolti fugaci su Spotify, di brani selezionati per noi dall’algoritmo, o se ci impegniamo, di interi album, mentre siamo in auto, distratti dal traffico e dai semafori e dalle liste di cose che dovremo fare durante la giornata. E quì, in questa discussione su chi può o non può apprezzare certa musica senza strumenti nel traffico della vita, si inserisce quel magico gruppo dei King Crimson, la cui copertina di debutto rimane impressa nelle teste di tutti i collezionisti di vinili di questo mondo, di quelli che ancora si fermano a studiarli gli album, partendo dal prenderli in mano, scegliendo, consapevolmente, di ascoltare.

E in questo dibattito senza tempo mi inserisco io, l’orecchio ignorante privo di strumenti che per qualche motivo, al secondo ascolto a distanza di anni, si è ritrovato ad apprezzare quei suoni lontani dal consumismo umano ed emozionale di cui ci nutrono le radio, e gli algoritmi.

Si perché la musica dei King Crimson trascende i confini dei generi tradizionali, rendendo difficile la loro categorizzazione all’interno dei quadri convenzionali. Dalle improvvisazioni infuse di jazz di Starless ai poliritmi intricati di Larks’ Tongues in Aspic, la palette sonora della band è tanto diversificata quanto vasta. Questo eclettismo può essere disorientante per noi poveri ascoltatori abituati a formule musicali più lineari, eppure, in qualche modo, qualcosa mi si è mosso dentro scardinando i cassetti della memoria quando ho sentito Epitaph (In the court of the Crimson King – 1969) o The Talking Drum (Lark’s tongues in Aspic – 1973). E nell’ascoltare mi sono resa conto che forse, senza strumenti, senza averne imparato la lingua, quella musica e quelle parole erano state scritte anche per me.

I testi dei King Crimson spesso evitano strutture narrative lineari a favore di immagini astratte e riflessioni filosofiche. Canzoni, appunto, come Epitaph e The Court of the Crimson King evocano un senso di angoscia esistenziale e meraviglia cosmica, invitando ad un ascolto attivo, alla ricerca dei misteri dell’esistenza e della natura della realtà.
La lirica narrativa dei KC stimola inevitabilmente gli ascoltatori a confrontarsi con emozioni complesse e concetti astratti, premiando coloro che scavano sotto la superficie con significati ricchi e sfaccettati. Le loro parole non sono solo accompagnamenti alla musica, ma componenti integrali della loro espressione artistica, offrendo profonde e senza tempo intuizioni sull’esperienza umana.

In 21st Century Schizoid Man la band critica il caos e la disumanizzazione della modernità. L’immagine vivida dei versi “Blood rack barbed wire, politicians’ funeral pyre” dipinge un quadro cupo di guerra e corruzione politica, risuonando con il turbolento clima socio politico dell’epoca.

Starless dall’album Red, combina introspezione malinconica con meraviglia, mentre i testi toccanti di Starless and Bible black suggeriscono un profondo senso di vuoto e desiderio, con riferimenti al mondo dell’arte in tutte le sue forme, dalle pennellate di Rembrandt ai versi di Dylan Thomas, dipingendo così uno stato mentale profondamente oscuro e riflessivo.

Capire i King Crimson va oltre il semplice apprezzamento musicale; penetra nelle profondità della complessità artistica e della riflessione filosofica. La natura enigmatica della band non risiede in una mancanza di comprensione, ma piuttosto nei molteplici strati della loro musica, che sfidano le interpretazioni facili e richiedono un impegno attivo da parte dell’ascoltatore.

La propensione dei King Crimson per la sperimentazione e l’improvvisazione aggiunge un ulteriore strato di complessità alla loro opera. Le esibizioni dal vivo sono spesso imprevedibili, con i membri della band che si impegnano in dialoghi musicali spontanei che possono deviare in territori inesplorati in qualsiasi momento. 

Come se non bastasse, la formazione in continua evoluzione della band ha contribuito al loro fascino, con ogni nuova incarnazione che porta nuove prospettive e influenze. Dalla formazione iconica della fine degli anni ’60 all’ensemble contemporaneo guidato dal chitarrista Robert Fripp, i King Crimson hanno subito numerose trasformazioni nel corso degli anni, ciascuna caratterizzata dal proprio suono distintivo e dalla propria estetica. 

E questo flusso in costante cambiamento, certamente destabilizzante, porta a pensare che sia difficile dare un giudizio sommario dell’opera omnia del gruppo, tale è la diversità dei loro lavori. Eppure nonostante ciò si nota una certa linearità in questo viaggio psichedelico, a partire dai tempi complessi,i passaggi strumentali intricati ed elementi improvvisativi, al riutilizzo e reinterpretazione di particolari linee melodiche o progressioni armoniche durante tutta la loro discografia fino all’utilizzo di strutture narrative non lineari o non tradizionali, enfatizzando la natura ciclica e interconnessa della loro musica.

La sfida di comprendere i King Crimson non risiede, quindi, in una mancanza di chiarezza o coerenza, ma piuttosto nel loro rifiuto di aderire alle norme e alle aspettative convenzionali. La loro musica è un’avventura labirintica attraverso i recessi della psiche umana, che ci porta ad esplorare le più remote profondità dell’immaginazione e dell’intelletto. 

E per quanto i King Crimson possano rimanere un enigma per molti, il loro linguaggio musicale è un ricco arazzo di complessità, innovazione e profondità tematica, che rende la loro opera, per coloro disposti ad intraprendere il viaggio, ricca di ricompense. Se dopo un attento ascolto ci si sente come tramortiti dall’infinita e delirante odissea di suoni e parole, il ritorno ad Itaca è certo caratterizzato da un più profondo apprezzamento della musica come arte e un intimo senso di connessione con i misteri dell’universo. 

Linda Flacco

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