Le 10 +1 strade più avvincenti del boss

La “strada” è un concetto ricorrente nelle storie e nei testi di Bruce Springsteen. Fin dall’inizio della sua…

La “strada” è un concetto ricorrente nelle storie e nei testi di Bruce Springsteen. Fin dall’inizio della sua meravigliosa carriera ad oggi, l’amatissimo ed ormai navigatissimo cantautore del New Jersey, ha utilizzato la strada come metafora: la strada per guidare di notte verso la propria amata, la strada da percorrere in macchina o in moto, la strada lunga ed infinita per correre via lontano da una città che sta troppo stretta, la strada come casa o come scuola di vita, la strada per sognare, per cercare redenzione e trovare sé stessi, la strada per provare a vivere.

Percorsi cercati ardentemente, ma anche sofferti, a volte insensati, cammini lunghi una vita, sentieri bui e misteriosi, altri illuminati dalla speranza: tanta strada fatta e raccontata per capire poi che, alla fine, tutte le vie del Boss altro non sono che una corsa audace, affannata e affamata verso “il sogno americano”. Quel sogno di giustizia, di un mondo in cui ci si possa affermare grazie a valori fondati sull’uguaglianza, di un mondo in cui tutti hanno gli stessi diritti ed in cui il sogno di una vita migliore è diritto di tutti. Springsteen porta da sempre la musica delle sue canzoni dalla parte dei dimenticati e dei diseredati, dalla parte della working class, di tutti coloro che immaginano un futuro collettivo e non individuale. Sulla scia di uno dei suoi mentori Woody Guthrie con la sua “This Land Is Your Land”, Bruce ripone nelle proprie canzoni il sogno di un equo progresso degli USA e di un’America giusta. Un’attitudine, quella del cantautore, assolutamente potente, intensa e viva, nonostante l’amara e ricorrente scoperta che proprio questo tanto ambito sogno non esiste: è tutto una bugia.

Ma non è forse vero che l’importante non è quello che trovi alla fine della corsa, ma, piuttosto, quello che provi mentre stai correndo? Facciamo che ci piace pensarla così. Le vie del Boss sono infinite.

Di seguito una significativa selezione di 11 brani in cui le varie strade battute dal Boss hanno un ruolo predominante per regalarci emozionanti spaccati di vita, così come le ha viste, percorse e vissute lui stesso. 

Mi perdoneranno i fan delle Cadillac (“Cadillac Ranch” 1980), i nostalgici dell’autostop e di quel meraviglioso capolavoro sinfonico del 2019 (“Hitchhiking” 2019), e infine chi per tutta la settimana attende con ansia l’arrivo del weekend per uscire per strada a festeggiare l’aria di libertà (“Out in the street” 1980).

Siete curiosi di scoprire chi c’è al primo posto? Arriviamo fino in cima…

11. LONG WALK HOME (MAGIC, 2007)

Probabilmente una delle migliori canzoni scritte da Springsteen negli anni ’00: parla delle difficoltà americane durante la crisi politica ed economica dei primi anni 2000; Bruce ha usato il brano per sostenere la candidatura di Barack Obama nel 2008.

Una denuncia verso il paese che smette di sostenere tutte le persone che in realtà lo hanno costruito: sembra un vero e proprio allarme quello suonato dalla E-Street Band, le crepe sono diventate troppo grandi. Le chitarre elettriche ricche di energia ci spingono ad andare avanti e l’immancabile assolo di sax sembra provare ad indicarci la strada giusta per ritornare da dove siamo arrivati, ma “tesoro non aspettarmi, sarà lunga la camminata verso casa.”

10. The promised land (Darkness on the edge of town, 1978)

Si tratta del primo vero brano folk-rock inciso da Bruce & Co e questo nuovo atteggiamento musicale ha permesso di far distinguere la canzone e di renderla una delle migliori nella carriera del Boss.

Si guida una macchina lungo una strada che sembra infinita e che si apre davanti come un pezzo di vita ancora da scoprire, ancora da vivere. Il senso di questo pezzo sta tutto qua, nel brivido di voler scoprire cosa ci riserva il futuro e nella speranza di ritrovarsi uomo alla fine della strada: ‘Mister I ain’t a boy, no, I am a man and I believe in a promised land’.

Il titolo della canzone rende omaggio alla “Promised Land” di Chuck Berry.

Anche se le parole del ritornello restano le stesse durante tutta la durata del brano, la “furbizia” sta nel modo in cui cresce la tensione un verso dopo l’altro e ritornello dopo ritornello, grazie al perfetto mix di assoli di chitarra, sassofono ed armonica che, oltretutto, sembra proprio aiutarti ad aprire la strada davanti a te.

9.Incident on 57th street (the wild, the innocent and the e street shuffle, 1973)

La ricerca di redenzione è il tema principale di questo brano, ennesimo esempio di come Bruce, in questo caso già alla tenera età di 24 anni, abbia la grande capacità di scrivere storie “cinematografiche”, profonde e significative, trasportando l’immaginazione dell’ascoltatore all’interno della storia stessa.

I protagonisti di questa ballata ambientata a NY, che inizialmente doveva intitolarsi “Puerto Rico Jane”, sono lo spagnolo Johnny e la portoricana Jane, i Romeo e Giulietta in tempi più moderni: Johnny si ritrova a Manhattan picchiato e malmenato mentre cercava lavoro come escort maschio, ma trova la sua “redenzione” quando dall’ombra esce Jane che cerca di rassicurarlo: ‘Johnny don’t cry…’. Passeranno la notte insieme fino a quando lui, chiamato dai suoi amici, lascerà la dolce Jane sola tra le lenzuola per andare in cerca di soldi facili. Nonostante la giovane portoricana chieda a lui di tornare da lei all’indomani, non ci è dato sapere se l’avventura di Johnny quella notte finirà in tragedia o se i due giovani cuori tristi riusciranno a camminare insieme ‘fino alla luce del giorno’.

“Incident on 57th Street” fa parte della famiglia di quegli intensi brevi romanzi che solo Bruce riesce a scrivere: “Lost in the Flood”, “New York City Serenade”, “Jungleland”, “Racing in the Street”, “Backstreets”, sono solo alcune tra le prime composizioni di questo tipo. Le immagini e le sensazioni suscitate dal delicato pianoforte, dalle note della Telecaster e da questo testo rendono questo brano un piccolo capolavoro: saper scrivere una canzone così rilevante a poco più di venti anni non è certo cosa da poco.

8. STREETS OF PHILADELPHIA (1993)

Con “Streets of Philadelphia” Bruce incide per la prima volta una canzone destinata alla colonna sonora di un film, “Philadelphia”. Il film, interpretato da Tom Hanks e Denzel Washington, fu uno dei primi a parlare esplicitamente di AIDS e la delicata tematica viene centrata in pieno anche attraverso questa “atipica” canzone di Springsteen.

Si tratta di una ballata amara e rassegnata, la voce del cantante accompagna un uomo che sta per morire lungo un percorso doloroso in cui stanno soffrendo corpo e anima. Il testo è malinconico, la melodia quasi angosciante si basa su un loop di batteria mai provato prima. Questo toccante brano ha ottenuto un notevole successo in molti paesi ed è stato premiato con l’Oscar alla migliore canzone e con ben quattro Grammy Award.

Nel video è possibile vedere il protagonista del film Tom Hanks che incrocia lo sguardo di Bruce Springsteen quando inizia l’ultimo verso della canzone: ‘The night has fallen, I’m lyin’ awake, I can feel myself fading away so receive me brother with your faithless kiss..or will we leave each other alone like this on the streets of Philadelphia?’

7. HIGHWAY 29 (THE GHOST OF TOM JOAD, 1995)

“The Ghost of Tom Joad” fu premiato nel ’95 con un Grammy per il miglior album folk. Si tratta di 12 canzoni nude, sussurrate e ricche di speranza e malinconia.

Anche in questo album è possibile trovare più di una canzone dalla quale sarebbe stato possibile, ma soprattutto ideale, trarre delle trasposizioni cinematografiche.

“Highway 29” è senz’altro una di queste con la sua ambientazione, il tema trattato, i pensieri dei protagonisti che si mischiano ad immagini forti di sangue e violenza: tutto così nitido che sembra proprio davanti ai nostri occhi.

Il protagonista, onesto commesso, incontra un’affascinante donna con la quale decide di intraprendere un viaggio che lo porterà a compiere una rapina in banca. Poi la fuga in macchina (che ricorda quella di “Nebraska”) e la realizzazione di aver fatto qualcosa di troppo grande e sbagliato, con i dubbi nella mente dell’uomo accompagnati forse da vecchi fantasmi.

Il finale, che sa di infausto, resta sospeso in uno scenario quasi poetico in cui la donna è svanita (forse non è mai esistita?) ed il protagonista si guarda intorno prima di perdersi nel nulla.

Il country ed il folk sono i riferimenti musicali principali, un’atmosfera che sa di lunghe strade deserte e di polvere sotto le scarpe: uno dei classici immaginari americani.

“Highway 29” è una short-story straordinaria, cantata da una voce assolutamente profonda ed emozionante.

6. NEBRASKA (NEBRASKA, 1982)

Dopo 9 anni di carriera e dopo aver legittimato il suo status di rockstar grazie a grandissimi successi, nel 1982 Bruce decide di comporre “Nebraska”: un album inciso in casa, da solo, su un registratore a quattro piste, dieci brani brevi ed essenziali scritti e registrati di getto. Nel momento in cui il cantautore decide di “prendersi una pausa” dalla fama conquistata e di rifugiarsi in casa per due mesi per trovare la sua vera identità, per ritrovare sè stesso, nasce  “Nebraska” che rappresenterà l’apice creativo del rocker: insieme a “The Ghost of Tom Joad”, è senza il minimo dubbio il migliore disco acustico di Springsteen.

Questo album è un disperato grido di dolore, si grida sottovoce alla solitudine, al vuoto derivante dall’alienazione dagli amici e dal lavoro, all’isolamento. Nelle melodie e nell’atmosfera i riferimenti al mondo di Woody Guthrie, Johnny Cash e Bob Dylan sono ben tangibili.

Con la title-track Bruce tenta di entrare nella mente del serial killer degli anni ’50 Charles Starkweather, che, insieme alla sua ragazza, uccise 11 persone in Wyoming e Nebraska: la noia ed il vuoto di provincia trasformano una coppia di giovani insoddisfatti in due assassini che decidono di uccidere a caso fino a quando non vengono fermati. Perchè lo hanno fatto? Quando il giudice porgerà loro questa domanda così loro risponderanno: “Perchè nel mondo c’è un sacco di malvagità”.

Un disco perfetto, tra i più amati dai fan: armonica e chitarra accompagnano una voce addolorata e quasi rotta dal pianto. Il freddo è palpabile. Dentro e fuori.

They wanted to know why I did what I did, well sir, I guess there’s just a meanness in this world…’

5. RACING IN THE STREETS (DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN, 1978)

Una ballata spogliata, malinconica, triste ed a tratti anche inquietante. Un perdente di una piccola città, un auto truccata e una ragazza dagli occhi stanchi. Fin dalla prima nota di pianoforte di Bittan, l’ascoltatore è avvolto da un velo di dolce tristezza, quando poi Bruce comincia a cantare arrivano a farci sbandare sensazioni di rassegnazione e di rimpianto.

La canzone cresce gradualmente in modo da aumentare a poco a poco la tensione emotiva: Federici con la tastiera, il basso di Tallent, una leggera batteria di Weinberg. Ma è il piano di Bittan che si guadagna la scena nella maestosa coda strumentale e si distingue per regalarci quella nota emotiva in più.

Bruce canta l’impotenza dell’uomo e l’incertezza del futuro e lo fa componendo questa splendida canzone così tranquilla eppure così devastante: la strada è il luogo dove si sfoga l’impeto giovanile attraverso gare clandestine con macchine truccate, dove si corre per soldi e dove si culla la speranza di una via d’uscita all’orizzonte: ‘tonight my babe and me, we’re gonna ride to the sea and wash these sins off our hands’.

Un brano dedicato a coloro che vivono ai margini della città, nel buio che li inghiotte, le cui corse in macchina altro non sono che tristi incubi; un brano in cui il significato lo si trova sia nelle parti cantate che in quelle strumentali. Un brano che fa male.

4. BACKSTREETS (BORN TO RUN, 1975)

Una delle canzoni simbolo della discografia del Boss, un brano che ha qualcosa di leggendario, un brano molto difficile da identificare in un unico genere. “Backstreets” è un altro di quei racconti cinematografici in cui i personaggi si possono immaginare senza difficoltà: un’altra storia di fuga, stavolta verso le strade secondarie di periferia, in una notte troppo lunga e buia in cerca di quel qualcosa di più e lontano dalle difficoltà della vita quotidiana.

Il pianoforte dell’intro è maestoso, la voce è più viva e sofferta che mai, l’assolo di chitarra è uno dei migliori di Springsteen, melodie trionfali: una canzone con la quale si entra facilmente in empatia. Desiderio, delusione, tradimento e impotenza sono tutti “nascosti nei vicoli”.

3. DRIVE ALL NIGHT (THE RIVER, 1980)

Una ballata lenta, struggente, meravigliosa: 8 minuti e 27 secondi di una disarmante dichiarazione d’amore. ‘I swear I’ll drive all night just to buy you some shoes and to taste your tender charms’ : un testo apparentemente forse banale, ma che Springsteen riesce a cantare con un’intensità da brividi.

Una fuga d’amore notturna proposta alla propria amata: il protagonista le promette che guiderà tutta la notte nonostante il vento, la pioggia e la tempesta, soltanto per poter dormire ancora una volta tra le sue braccia. Il brano comincia piano, quieto, con un pianoforte che sembra suonare proprio nel silenzio della notte, appunto; poi il suo incedere maestoso, passando da un assolo di sax di “big man” Clarence Clemons (oggi suonato dal nipote Jake) troppo trascinante e luminoso per essere vero, scoppia nell’urlo disperato d’amore: ‘oh girl you’ve got my love…heart and soul’.

Per decenni è stata raramente eseguita durante i concerti ed i fortunati che hanno potuto ascoltarla dal vivo ricordano quel momento come qualcosa di davvero commovente e memorabile, mentre le migliaia di spettatori alzano nel buio del cielo le fiamme dei loro accendini (o, ahimè, la torcia dei loro cellulari).

La canzone è stata “riscoperta” di recente grazie alla bella reinterpretazione dell’amico irlandese Glen Hansard che, inoltre, l’ha incisa con la piccola collaborazione di Eddie Vedder; ma va detto che questo è esattamente l’esempio di una di quelle canzoni che solo se cantate da Springsteen riescono a raggiungere altissimi livelli di emozione e di pathos.

Chiudere gli occhi, abbassare le luci ed alzare il volume. Grazie.

Vi propongo la versione live del 2012 a Gothenburg.

2. THUNDER ROAD (BORN TO RUN, 1975)

‘The screen door slams, Mary’s dress waves, like a vision she dances across the porch as the radio plays Roy Orbison singing for the lonely, hey that’s me and I want you only’.

Queste sono le prime parole della prima traccia del terzo disco del Boss e non potrebbe esistere un inizio migliore e più significativo di questo: in queste prime perfette e meravigliose righe e nella melodia dei primi 30 secondi c’è dentro tutta la poetica del cantautore; ma tutto il testo rappresenta una delle sue più grandi composizioni in assoluto.

Il titolo di questa canzone è quello di un vecchio film del ’58 “Il contrabbandiere (Thunder Road)”, ma, rileggendo questo incipit, dobbiamo ammettere che anche questo testo è da grande letteratura cinematografica: la zanzariera che sbatte, il vestito di Mary che svolazza mentre lei balla da sola nella veranda ascoltando “Only The Lonely” di Roy Orbison..e tra quei cuori solitari c’è il giovane Bruce che è là che guarda Mary innamorato.

Delicate note di pianoforte si fondono con una dolce armonica, poi la chitarra, le percussioni ed infine uno strepitoso sax portano il brano, anche attraverso piccoli cambi di ritmo, ad altissimi livelli di una passione incendiata da rabbia e speranza. Un’escalation di emozioni che riflette alla perfezione il testo ed il messaggio che la canzone porta con sé: la voglia e la necessità di fuga da una città di perdenti. Una strada da percorrere come promessa di libertà per inseguire un sogno al quale è necessario credere, affidandosi ad un auto ed una chitarra.

Questa è probabilmente la storia d’amore più universale che ci possa essere: un tramonto, due ragazzi e una macchina per fuggire e per rifarsi una vita. Il testo è lungo, ricco di parole, ma il tutto scorre via con grande scioltezza, si va dritti e spediti verso quel qualcosa di migliore rispetto a quello che ci sta riservando il presente; Bruce raramente ha interpretato con così tanto trascinante pathos altri suoi versi.

C’è qualcosa nella melodia di “Thunder Road” che fa pensare alla mattina che nasce, ad un nuovo inizio. E c’è qualcosa nel suo lento e dolce crescendo che fa facilmente innamorare.

Ascoltare per credere.

 

Vi propongo anche l’ascolto live di questo brano registrato presso l’Hammersmith Odeon di Londra nel ’75 e quello registrato sempre a Londra nel 2012 in occasione dell’Hard Rock Calling Festival: due versioni piano e voce, a distanza di 37 anni una dall’altra, entrambe così semplici e così potenti allo stesso tempo, due versioni che emozionano davvero. E non poco.

1. BORN TO RUN (BORN TO RUN, 1975)

Primo posto un po’ troppo scontato? Forse sì, è vero.

Ma possiamo parlare quanto vogliamo di strade e di percorsi, di melodie, di testi, di messaggi, di emozioni o di sogni: niente incarna meglio di “Born To Run” l’essenza di Bruce Springsteen. In poche parole, se non ti piace Born To Run non ti piace Bruce Springsteen.

Il sogno Americano, le strade, le macchine, la fuga, la libertà e la liberazione, la ricerca dell’amore e la ricerca di sé stessi: c’è tutto nel testo (e nella musica) di questo brano immortale. Comincia così questa giovane ribelle corsa tanto forte e impetuosa: ‘in the day we sweat it out on the streets of a runaway american dream, at night we ride thorugh the mansions of glory in suicide machines’

“Nato per correre” è in realtà espresso ancora meglio se inteso come “Nato per fuggire” ed infatti questo brano riassume la vita, i sogni e le speranze dei ventenni che si riflettono nel muro di suoni presenti in questi 4 minuti e mezzo. Il giro di chitarra elettrica che si ripete per tutta la canzone, le rullate di batteria, i fiati cadenzati, le altre chitarre, adesso le doppie tastiere, poi è il turno degli imperdibili assoli di sax e, mentre il Boss canta con tutta l’anima il ritornello che rimarrà nella storia del rock ‘baby, we were born to run’ , capisci che l’amore, la gloria e la fuga non sono mai stati urlati così a pieni polmoni come adesso. E tutto prende senso, tutto è chiaro.

Volevo fare il disco rock più grande mai fatto. Volevo che suonasse enorme, che ti prendesse per la gola e che risvegliasse la tua attenzione, non solo verso la musica, ma verso la vita” così dirà tanti anni dopo lo stesso Bruce.

Non so se “Born To Run” è l’album rock più grande mai fatto, ma so che con questa maestosa title track è stato realizzato un vero e proprio inno generazionale che ha fatto storia, una performance stellare di un eterno inno alla vita.

Una canzone che, 47 anni dopo, non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Non più.


E se volete ascoltare i brani della classifica (piu qualche sfortunato escluso già menzionato all’inizio) ecco la playlist Spotify. Vi consiglio di godervela mentre percorrete la vostra di strada. 

 

Simone Berrettini

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