IL RITORNO DI PAOLO NUTINI: Il coraggio di prendersi del tempo

Il musicista scozzese è tornato dopo otto anni di assenza: con un album meraviglioso, un tour europeo…

Il musicista scozzese è tornato dopo otto anni di assenza: con un album meraviglioso, un tour europeo completamente sold out e un modo di vivere la musica che sembra appartenere a un’altra epoca.
Una bella epoca, in cui l’autenticità artistica e personale viene prima degli interessi delle case discografiche.

Che Paolo Nutini sia un fuoriclasse della scena musicale contemporanea, è cosa ormai risaputa: cos’altro potremmo aggiungere sui suoi live emozionanti, energici, di rara qualità, o sulla sua voce, graffiante e impeccabile anche dopo un imprecisato apporto alcolico, che sembra arrivare da un mondo profondo e lontano? Nulla, se non forse segnalare che quando la qualità è tale, non servono scenografie, fuochi d’artificio o luci sofisticate: la musica è al centro, nella sua purezza. Gli effetti visual sono pochi e mirati: tutto quello che serve, sul palco di un concerto di Paolo Nutini, è lui, circondato da una band di ottimi musicisti e dall’emozione del pubblico.

Così, dopo le date estive dello scorso luglio, anche quello che è successo al Fabrique di Milano in un’uggiosa sera di inizio autunno, appartiene alla magia, al concerto inteso come rituale collettivo, fatto di un continuo scambio di energia tra l’artista e le persone. Un incontro di emozioni che in pochissimi, anche tra musicisti e band di prestigio internazionale, sanno ricreare durante i live.
Paolo Nutini lo fa: chiude gli occhi e si immerge in ogni canzone come fosse l’ultima volta che la canta, ogni volta aggiungendo (o potremmo dire lasciando) un pezzo di sé, come lui stesso ha raccontato in un’intervista di qualche tempo fa:

Non sono una persona molto estroversa, ma quando sono sul palco mi viene naturale aprirmi completamente. Più mi sento vulnerabile, meglio è: provo a dare al pubblico un pezzo di me, e allo stesso tempo ricevo altro da loro”  

Il suo dono è anche quello di riuscire a rimanere autentico e vivere la sua carriera secondo il suo sentire umano. Così, Paolo è stato libero di assentarsi dalla scena musicale per otto, lunghissimi anni. Un’eternità, non solo per chi ama la sua musica, ma anche per le etichette discografiche e, più in generale, per un mercato ormai basato sulla quantità e su poche ma semplici regole: un album ogni due anni, ripetute tranche di tour internazionali, tantissima promozione, assillanti condivisioni social.
Paolo Nutini non ha rispettato nessuna di queste regole. La sua assenza discografica è durate quattro volte di più della media, le sue ultime apparizioni live risalivano al 2017, è scomparso dai social e da ogni radar.

Perché?

Perché dopo il successo di “Caustic Love” (2014), il talento di Paisley era alle prese con una fama ormai mondiale, invasiva del suo essere schivo e anti-divo. Come tutta risposta, invece che infilarsi in progetti poco convincenti o calendarizzati, è sparito. Zaino in spalla, ha viaggiato in Sud America, tra Messico e Caraibi, per riappropriarsi di sé stesso e di quell’autenticità messa a dura prova da una popolarità che faticava a gestire.

In occasione dell’atteso ritorno e dell’uscita del suo ultimo album, “Last Night in The Bittersweet”, la scorsa estate, Paolo ha raccontato di questi anni e del suo viaggio. Solo, alla scoperta di nuovi territori, ha conosciuto persone lontane da tutto e da tutti, si è perso nei paesaggi mozzafiato e ha approcciato riti locali di vario tipo, con tanto di prova del veleno della rana scimmia, utilizzato da alcune tribù amazzoniche per rafforzare i propri sensi nelle sessioni di caccia (lui sostiene che abbia avuto un effetto più depurativo che allucinogeno, ma preferiamo non approfondire). In tutto questo tempo, non ha mai smesso di scrivere, annotare sensazioni, parole ed emozioni: “Anche se si trattava di appunti, o di canzoni che sono rimaste nella mia testa per più di anno, mi faceva sentire felice”, ha dichiarato.

Photo Credits: Antonio Triolo

E così, libero di sparire per mesi in un altro continente e di riconnettersi col modo più genuino di scrivere musica, ha pian piano costruito l’album del suo ritorno: il migliore della sua carriera, a detta di molti, e anche nostra. Un album in cui l’esperienza e le riflessioni di un viaggio “on the road” sono sviscerate in più punti: in “Lose it”, Paolo parla di sentire intrappolati in una mente sofferente e concedersi di perdere il controllo per un pochino, in “Acid Eyes” si affacciano i rimpianti per non aver saputo esprimere i propri sentimenti, nel ritornello di “Shine a Light” ci invita a ballare, anche e soprattutto quando ci sentiamo soli, in “Everywhere” c’è la malinconia per un amore che sembra essere ovunque, in “Heart filled up” c’è la mancanza (“Alone and nostalgic, dreaming of yesterday”). Infine, in pezzi come “Take me, Take Mine” e “Through the Echoes”, Paolo canta direttamente al suo pubblico, invitandolo a cercare un po’ di serenità e conforto nelle sue canzoni, in un gesto di calore e vicinanza che risuona fortissimo, soprattutto di questi tempi.

Il viaggio non sarà certo stata l’unica ispirazione dell’album – impreziosito da perle come la ballata beatlesiana “Julianne”, la dichiarazione d’amore controcorrente e irrisolta di “Writer”, e le hit radiofoniche “Petrified in Love” o “Radio” – ma certamente l’esperienza in solitaria ci ha riconsegnato un Nutini più maturo e consapevole. L’immagine di un musicista che molla tutto per viaggiare da solo e prendersi il tempo per ritrovarsi sembra anacronistica nell’epoca della sovraesposizione mediatica e della condivisione compulsiva, ma Paolo Nutini ci ha fatto anche questo regalo, ricordandoci che si può stare in cima alle classifiche alle proprie regole, nutrendo il talento naturale invece che spremerlo, perdendosi dall’altra parte del mondo per poi ritrovarsi. E tornare meglio di prima.

Sara Bernasconi

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