paura e delirio a new york – part I

L’ardente scena musicale della grANDE MELA DEGLI ANNI ’70   C’era una volta nella grande mela il…

L'ardente scena musicale della grANDE MELA DEGLI ANNI '70

 

Nel 1973 New York non era la mecca del franchising globale che è oggi ma una città povera, degradata, sull’orlo della bancarotta con 5 miliardi di dollari d’indebitamento, la disoccupazione in crescita e il crimine dilagante. L’idealismo visionario degli anni sessanta, il famigerato sogno americano, era sostanzialmente morto. Una nuova generazione troppo giovane per aver partecipato al fantasmagorico party degli anni sessanta doveva accontentarsi per forza degli avanzi. E come spesso accade, proprio in questo decadente sfondo sociale, l’arte esplose come non mai. Quella che vogliamo raccontarvi è una storia che ha luogo a New York tra il 1973 e il 1977, cinque anni che hanno rivoluzionato in maniera inequivocabile la storia della musica che siamo soliti chiamare rock’n’roll. Ci sono 8 milioni di storie nella città nuda, noi ve ne raccontiamo qualcuna.

C’era una volta nella grande mela il CBGB & OMFUG (Country, Bluegrass, Blues and Other Music for Uplifting Gormandizers), inaugurato verso la fine del 1973 al 315 della Bowery da Hilly Kristal, un ex marine ebreo di origini russe cresciuto nel New Jersey, che voleva offrire alla clientela un sottofondo di musica dal vivo. Non avrebbe mai immaginato che il suo locale sarebbe diventato l’epicentro della scena musicale della New York degli anni 70..

A meno di un anno dalla sua apertura, il locale cominciò ad ospitare le performance di giovani musicisti ancora sconosciuti quali Television, Ramones, Patti Smith, Blondie, Talking Heads, Suicide e Dead Boys.

il cbgb era quel tipo di posto dove stavi appoggiato al bancone e, a un certo punto, come se nulla fosse, salivi sul palco. Quando finivi scendevi dal palco, ti asciugavi il sudore,  tornavi al bar e ti facevi una birra.”

David Byrne,Talking Heads

Tra le band più influenti sul palco del CBGB troviamo sicuramente loro, i Ramones. Il nucleo del gruppo si forma a Forest Hills nel 1974, un’enclave della classe media nel Queens, a venti minuti di metropolitana da Manhattan.  Tommy Erdelyi (Tommy Ramone) e John Cummings (Johnny Ramone) sono compagni di scuola al liceo.

 

Credits: Michael Ochs Archives – Getty Images

Dopo una breve parentesi formativa nel gruppo Tangerine Puppets, i due si perdono di vista per un po’ di tempo: Tommy diventa apprendista tecnico del suono mentre Johnny rimane invischiato in giri pericolosi di droga e malavita. Torna però alla fine sulla retta via, si sposa e fa il muratore fino a quando Tommy lo convince a mettere in piedi una band con Doug Colvin (Dee Dee) Jeffrey Hyman (Joey).

Il nome, Ramones, è un’idea di Dee Dee. Phil Ramon è lo pseudonimo usato da Paul McCartney per prenotare gli hotel. Il nome suonava un po’ minaccioso ma ricordava anche i cartoni animati. Tutti e quattro sono fan dei New York Dolls e gli Stooges ma le relazioni all’interno della band sono sempre conflittuali. Joey era il timido emarginato, Dee Dee il borderline votato all’autodistruzione, Johnny il maniaco del controllo, Tommy l’outsider giramondo. Il look scelto, capelli a scodella, jeans strappati, giacca di pelle nera, si associa perfettamente con la loro musica dura e veloce, figlia della strada. 

Nel 1976, la musica rock aveva fatto il suo corso. Gli inni adolescenziali crudi, chiassosi e ribelli degli anni 50 e 60 avevano lasciato il posto alle imitazioni plastiche. Bee Gees e KC e la Sunshine Band suonavano nelle discoteche. Gli ascoltatori più seri erano votati all’ascolto di monumentali quanto pretenziose opere rock progressive. Il rock era diventato sovraprodotto, sovraccaricato e per nulla divertente. E in questa cornice i Ramones recuperarono l’innocenza perduta del rock.

La realizzazione del loro primo album costò poco più di seimila dollari (poco anche per l’epoca). L’album, intitolato semplicemente “Ramones” esce nell’aprile 1976 ed è un distillato d’essenza rock’n’roll. Il disco infatti dura meno di 30 minuti come del resto la maggior parte dei loro concerti. Pezzi al fulmicotone sparati uno dietro all’altro al grido di battaglia di one-two-three-four! Non c’è un pezzo che supera i due minuti e mezzo. Naturalmente il disco non ebbe successo ma l’influenza che i Ramones hanno esercitato sulle generazioni successive non è quantificabile.

Tra i gruppi più influenzati dai Ramones troviamo I Talking Heads. David Byrne, originario di Baltimora, cresce suonando l’ukulele e imparando a memoria le canzoni di Bob Dylan. I suoi genitori lo vedono come un futuro perito, lui si sente un’artista. Da ragazzo dopo tanto girovagare si ferma a Providence dove frequenta la Rhode Island School of Design; lì incontra la coppia Chris Frantz e Tina Weymouth. Lei un’aspirante pittrice giramondo, lui, il suo fidanzato, un aspirante scrittore che suona la batteria. Nel 1974 i tre si trasferisco a New York in un loft nel Lower East Side, a due passi dal CBGB. Proprio lì, dopo aver assistito ad un concerto dei Ramones, decidono di formare una band. Tina passa al basso, David alla chitarra, Chris alla batteria. Nascono i Talking Heads.

Fin dall’inizio si presentano non solo come gruppo musicale ma anche come progetto d’arte concettuale e dopo mesi di discussioni sul look scelgono di vestirsi da secchioni del liceo, in contrasto con le giacche di pelle nera che li circondavano. L’esordio live avviene proprio al CBGB il 5 giugno 1975 come supporter dei Ramones. Le reazioni sono contrastanti. Ad Alan Vega dei Suicide non piacciono per nulla. Lenny Kaye invece apprezza i richiami alle ritmiche del R&B e del funk.

Nell’autunno del 1976, Jerry Harrison si unisce ai Talking Heads. E’ il tassello mancante alla band. A fine dello stesso anno i Talking Heads firmano per la Sire. Il primo album intitolato come l’anno della sua uscita, 1977, sarà prodotto da Brian Eno, appena di ritorno da Berlino dove ha terminato la produzione di “Heroes” di David Bowie.Il singolo di debutto è uno dei classici della band, è un pezzo ingannevolmente funky che si regge sul basso marziale della Weymouth. Dal testo della canzone molti ipotizzano che sia un riferimento a David Berkowitz, meglio noto come il “Figlio di Sam” o Il killer della calibro 44, il serial killer che uccise sei persone a New York tra il 1976 e il 1977.  Quella canzone era “Psycho Killer”.

E in questa cornice di ribellione non possiamo non parlare dei Dead Boys. Nati dallo scioglimento dei Rocket From The Tombs, una band pre-punk proveniente dall’Ohio, arrivano a New York su incoraggiamento proprio di Joey Ramone. Guadagnarono velocemente notorietà in virtù delle loro oltraggiose esibizioni dal vivo. Gli atteggiamenti autolesionisti dell’istrionico cantante Stiv Bators e lo stile selvaggio del chitarrista Cheetah Chrome portano all’estremo il nichilismo della prima ondata del punk statunitense. Gli altri componenti della band sono Jimmy Zero (chitarra), Jeff Magnum (basso) e Johnny Blitz (batteria).

Il loro primo album del 1977, “Young, Loud and Snotty” , è uno di quei dieci dischi punk da avere assolutamente. Quello dei Dead Boys è un sound ruvido e deragliante che porta agli estremi la furia iconoclasta degli Stooges. La canzone che apre il disco, “Sonic Reducer”, è l’inno punk che meglio li rappresenta: 

I don’t need anyone, don’t need no mom and dad, don’t need no pretty face, don’t need no human race, I got some news for you, don’t even need you too

La breve parabola dei Dead Boys si conclude nel 1979 dopo la produzione del secondo album, “We have come for your children”. Quando la casa discografica gli impone di addolcire il look e il sound nel tentativo di renderlo più appetibile per il pubblico americano, la band si sente snaturata ed arriva inevitabilmente allo scioglimento. Stiv Bators morirà a Parigi nel 1990 investito da un taxi. Leggenda vuole che le sue ceneri vennero poi sparse sopra la tomba di Jim Morrison al Père-Lachaise.

A calcare il palco del CBGB tra fumo e alcool c’è anche una giovane semisconosciuta, Patricia Lee Smith. Grande appassionata di Rimbaud e i poeti simbolisti francesi, si trasferisce a New York con il sogno di diventare un’artista. Senza fissa dimora e dopo aver vagabondato tra metropolitana e parchi, finalmente trova lavoro in una libreria dove conosce il fotografo Robert Mapplethorpe. Nel 1969 si sistema con lui nella stanza più piccola del celebre Chelsea Hotel, la 1017. Patti, così cominciano a chiamarla tutti, frequenta assiduamente il Poetry Project, un forum di poesia dove si esibisce recitando le sue composizioni accompagnata dalla chitarra di Lenny Kaye e dal pianoforte di Richard Sohl.

Le prime canzoni della Smith attingono armonicamente dalle forme più antiche del rock e del pop dei sixties. Patti trova la sua formula espressiva fondendo queste strutture pop con testi molto più arcani ed evocativi, spesso improvvisati. La durata delle strofe delle sue canzoni è determinata dalle esigenze poetiche. “Gloria” ne è un classico esempio, del pezzo originale dei Them del 1964, rimane solo il ritornello.

A fine 1974 Patti Smith si esibisce al Max’s Kansas City, altro locale culto dell’epoca, con indosso un’uniforme scolastica maschile, jeans a zampa d’elefante e stivali di serpente. L’Arista Records anticipa tutti e mette sotto contratto il Patti Smith Group. “Horses”, il loro primo album prodotto da John Cale, ex Velvet Underground, uscì il 13 dicembre 1975. La copertina, opera di Mapplethorpe, è la citazione di una foto in posa di Frida Kahlo. Clive Davis, il boss dell’Arista non sopportava quel ritratto androgino in bianco e nero. Purtroppo per lui il contratto concedeva a Patti Smith la piena autonomia creativa, si rifiutò persino di permettere ai grafici di eliminare con l’aerografo la traccia di peluria sul labbro superiore, per lei “sarebbe stato come sottoporsi ad un intervento di chirurgia estetica”. La foto è iconica, “la copertina era un portale aperto su una miriade di modi di vivere, di esprimere la sessualità e la passione, di vestire i sogni”. (cit. Will Hermes). Con Horses, l’arte di Patti non era più classificabile come mera poesia, era diventata una nuova forma di rock’n’roll.

to be continued…

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