COME FUNZIONA LA MUSICA PER DAVID BYRNE

Tramite una ricerca di fonti curata nel dettaglio e il racconto di una vita consacrata all’arte, Byrne ci conduce in tutti gli angoli dello sconfinato mondo musicale.

Come funziona la musica, pubblicato per la prima volta nel 2012 da David Byrne e arrivato in Italia nel 2013 con Bompiani, ha un titolo volutamente generico. Si tratta di una di quelle domande che non si aspettano una risposta né breve né semplice e infatti il libro tocca una varietà di argomenti vastissima, è un tentativo di spiegare la musica in tutti i suoi aspetti. A partire dal titolo stesso, l’ambizione di Byrne sembra quella di scrivere un saggio onnicomprensivo sulla musica, non un genere in particolare ma la musica in sé, e in un certo senso ci riesce. 

Pur non avendo titoli accademici specifici, infatti, non si può certo dire Byrne che non abbia l’autorità per scrivere un trattato completo sulla musica. All’università Rhode Island School of Design David frequenta corsi di educazione artistica e da lì comincia a formarsi le basi teoriche per tutto quello che farà in seguito. Nel mondo degli appassionati di musica, Byrne è conosciuto principalmente come il frontman dei Talking Heads, gruppo rock statunitense ricordato per il suo stile fuori dai comuni standard rock grazie al frequente utilizzo di moltissimi strumenti, alla collaborazione con musicisti dalla provenienza più varia, alla sperimentazione sia sul piano musicale, sia su quello della performance visiva. Ma David Byrne non è solo un musicista: è un ricercatore, un viaggiatore, un innovatore, uno che, in maniera quasi ossessiva, sperimenta tutto quello che fa guardandolo da ogni lato possibile, chiedendosi il perché e il percome delle cose, se le stesse si possono fare in modi diversi, con altri mezzi e in altri contesti – proprio in questo libro confessa di avere la sindrome di Asperger. 

Per tutti questi motivi e anche in virtù di un apparato bibliografico impressionante, Come funziona la musica è proprio un buon saggio e noi vogliamo offrire ai lettori qualche spunto tratto dalle sue pagine per riflettere sulla musica alla maniera insolita del suo autore. 
Attenzione però! Se volete leggere il libro ma non siete fan dei Talking Heads, di Brian Eno (storico collaboratore e amico di Byrne) e dell’ibridazione di generi e stili, è necessaria una premessa. Tutto quello su cui si interroga Byrne è tratto dalla sua esperienza diretta, per cui il libro è anche un racconto molto dettagliato di come nascono gli album della band e le loro performance, anche solo un unico pezzo o un’unica esibizione. Inoltre, diciamolo: come si fa a essere “fan” di Brian Eno e della sua musica d’ambiente, un genere che nasce proprio per esistere al di fuori dei grandi clamori di pubblico, per descrivere e riempire uno spazio anziché trascinare folle in visibilio? Eppure non si può negare l’importanza dei risultati che Eno, altri prima di lui e anche David Byrne ottengono in termini di conoscenza del suono, della nostra consapevolezza su come, appunto, funziona la musica. Il libro, infatti, comincia partendo proprio da qui.

La creazione alla rovescia

Come funziona la musica comincia parlando di “ambienti”, con il capitolo “La creazione alla rovescia” e subito troviamo espresso un concetto talmente semplice ed evidente da risultare quasi invisibile. Tutti noi ascoltatori contemporanei dell’Occidente del mondo, imbevuti di romanticismo, siamo portati a pensare che la creazione musicale sia esclusivamente qualcosa che venga da dentro, da una passione o un’emozione intima che non può fare a meno di esprimersi. Non ci accorgiamo che queste pulsioni sono certamente presenti, ma sono anche profondamente condizionate da processi di adattamento allo spazio disponibile. 
Ad esempio, se un giorno vogliamo suonare la nostra musica in un pub pieno di arredamento messo insieme alla rinfusa e gente che beve, ride e qualche volta fa a botte, non potremo proporre un repertorio di suoni leggeri d’arpa e clarinetto né un dolce cantato sussurrato: dovremo alzare il volume, magari aumentare il ritmo, far sì insomma che la musica sovrasti il rumore del locale e gli avventori possano udire e lasciarsi coinvolgere, oppure dovremo cambiare totalmente contesto. La creazione musicale, quindi, ha una natura adattiva. Nelle parole di Byrne: “la musica percussiva funziona bene all’aperto, dove la gente può ballare o aggirarsi liberamente”, ma “la stessa musica si trasformerebbe in una poltiglia sonora in una cattedrale”, che invece ha una struttura architettonica e materica adatta a una composizione musicale modale con note molto prolungate, che possono riverberare su arcate e muri di pietra senza produrre dissonanze. 
Lo storico punk club di Newy York cBGB

La tecnologia plasma la musica (e anche noi)

Andando avanti nel libro, nel capitolo terzo La tecnologia plasma la musica. Parte prima: l’analogico”, Byrne ricostruisce la storia della registrazione musicale a partire dai primi anni del ‘900 e di come essa abbia influenzato, inevitabilmente, aspetti fondamentali della musica come la durata dei pezzi, la scelta degli strumenti, i contesti di ascolto. Attraverso questa analisi puntuale e supportata anche da precise fonti iconografiche, l’autore si ritrova, tra le altre cose, a riflettere su come il progresso tecnologico abbia agito, tra le altre cose, sulla nostra idea di autenticità.

Sebbene infatti non si possa assolutamente negare il piacere di assistere a un’esibizione dal vivo, con tutte le improvvisazioni e gli imprevisti che contribuiscono a regalarci un’esperienza unica, a molti di noi, almeno una volta nella vita, è passato per la mente questo pensiero: che una data esecuzione dal vivo fosse più o meno gradevole perché ci sembrava più o meno uguale alla versione registrata del pezzo. Lo spunto è particolarmente interessante perché non si limita alla musica; si può ragionare in questo senso anche sulla fotografia, sull’illustrazione, sulla pittura. Ma considerando la natura intrinsecamente effimera della musica, se ci siamo ritrovati a interrogarci sulla qualità di un’esecuzione dal vivo, tranquilli: non siamo brutte persone né – si spera ardentemente – finiremo per imitare la musica prodotta dall’Intelligenza Artificiale.
La tecnologia ci ha senz’altro fornito dell’enorme beneficio di poter riascoltare la musica che ci piace tutte le volte che vogliamo, ed è per questo che siamo così affezionati al suo prodotto. Ci consente di legarci profondamente a un brano, un album, un artista, di rendere la musica “nostra” su più livelli, in senso sia sincronico – ossia nel momento esatto in cui l’ascoltiamo, che diacronico, evolvendo dentro di noi il suo significato a seconda dei momenti diversi della nostra vita in cui ascoltiamo un brano registrato. 
Bisogna solo ricordarsi, come dice Byrne, che “la registrazione non è affatto un specchio acustico oggettivo” anche se finge di rappresentare fedelmente un particolare evento sonoro. Ce lo dice la storia stessa delle tecniche di registrazione, le enormi difficoltà che hanno avuto i primi inventori dei fonografi, o chiunque si ritrovi con pochi soldi in tasca a voler registrare un complesso fatto di basso, batteria, chitarra e voce (per non parlare di aggiungere altri strumenti). 
 

Proseguendo, il libro tratta di aspetti fondamentali e più pratici, come il sistema di distribuzione della musica (capitolo “Affari e finanze”), di come progettare la propria presenza scenica (capitolo “Come far nascere una scena”), e ancora di aspetti antropologici e sociologici (capitolo “La scelta infinita: il potere della cura dei contenuti”). Ci porta, ad esempio, a riflettere su come vengono influenzati i nostri gusti musicali, di chi ci fidiamo per ascoltare o meno un artista, e offre un utile panorama di come le più moderne piattaforme di streaming siano arrivate a basare la loro diffusione globale proprio sulla cura personalizzata dei contenuti, imitando i rapporti sociali che prima erano alla base delle nostre scelte.

E così, pian piano, arriviamo al capitolo finale, “Harmonia Mundi”, con la domanda forse più difficile di tutte: perché facciamo musica
Se volete avventurarvi in un tentativo di risposta, noi vi consigliamo di dare un occhio a “Come funziona la musica” di David Byrne, un manuale-diario così ben fatto che, dal 2012 al 2025, mostra davvero pochissime rughe. 

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Alberto Pani

Blogger

Cresciuto ai piedi delle ridenti colline del Monferrato, tra muri di nebbia sei mesi l’ anno, zanzare incazzate nei sei mesi successivi e bocce di vino rosso sempre e comunque per stemperare il disagio così accumulato.

Chitarrista fuori forma.

Fermamente convinto che 8 volte su 10 le cose si risolvano da sole.

Punto debole: la meteoropatia